lunedì 29 ottobre 2012

LO SCANDALO PARMALAT



Il nuovo miracolo italiano


Trasformare il latte in niente. Nel Paese che ha depenalizzato il falso in bilancio per risolvere i guai giudiziari di Berlusconi, scoppia uno dei pi˜ gravi scandali della finanza globale. Ecco che cosa Ë successo nel caso Parmalat. Ecco chi non ha voluto vedere

di Luca Andrei



Di Calisto Tanzi si sapeva che la Parmalat era sua. E basta. Mai una volta, per dire, che un paparazzo lo avesse immortalato in posa plastica al timone di un superyacht. E il cavalier Calisto non era neppure il tipo che amava collezionare opere d’arte o ville in Sardegna. Una squadra di pallone, quella sì, ce l’aveva, il Parma calcio. Allo stadio, però, si faceva vedere raramente e in tribuna d’onore non sfoggiava mai quell’aria tronfia di altri suoi colleghi presidenti. Il signor Tanzi era mister Parmalat. E viceversa. Il grande pubblico, quello che nulla sa di alchimie di bilancio e battaglie finanziarie, vedeva quel signore dalla faccia triste incorniciata da pochi capelli bianchi e pensava: «Lui si che ha lavorato sodo. Venuto su dal niente e adesso possiede un impero». Certo, si sapeva della vecchia amicizia di Tanzi con l’ex segretario della Democrazia cristiana, Ciriaco De Mita. Si conoscevano le sue frequentazioni con le gerarchie ecclesiastiche. Si parlava della sua vicinanza agli ambienti dell’Opus Dei. E anche, giusto per arrivare ai politici dei tempi nostri, dei suoi legami con il ministro Pietro Lunardi. Nell’immaginario collettivo, però, il fondatore della Parmalat restava il prototipo dell’uomo che si è fatto da solo. Una specie di Silvio Berlusconi, ma senza la boria, la prosopopea, i modi da piazzista del presidente del Consiglio.

Nella sua città, poi, il re del latte era un mito, un intoccabile. La Gazzetta di Parma, un giornale che si picca di dare ai suoi lettori «un’informazione a 360 gradi», ci ha messo molte settimane prima di concedere l’onore della prima pagina alla crisi dell’azienda più importante, con Barilla, della zona. E, intanto, titoli su titoli per lo sport locale o gli incidenti stradali. D’altronde bisogna capirli, i parmigiani. Calisto era un gran benefattore. Se c’era da restaurare un monumento, da finanziare una mostra, da sostenere un ente morale, lui era lì, portafoglio alla mano. Ed erano miliardi di vecchie lire, mica un’elemosina. Tutto casa, chiesa e azienda, il signor Tanzi. Una moglie, Anita Chiesi, Titti per gli intimi, che viene da una famiglia di industriali farmaceutici. E due figli dalla faccia pulita e simpatica. Stefano che guidava il Parma calcio. E Francesca che si occupava delle attività turistiche comprate dal papà. Marchi importanti: Sestante, Comitour, Going, giusto per citare i più conosciuti.

Pallone e viaggi. «Due giocattolini», scherzava la gente. Vai a pensare che i due rampolli dall’aria gentile stavano seduti anche loro su montagne di debiti e di perdite. Del resto, adesso, tutti dicono che non vedevano, non sapevano, non si immaginavano. E a scusarsi, con le mani aperte e gli occhi sgranati, non sono soltanto i buoni padri di famiglia di Parma e dintorni, quelli che ogni domenica incontravano Calisto alla messa della domenica in cattedrale. No, no, a giurare che non si erano accorti di nulla, che proprio non avevano notato nessun indizio della catastrofe imminente, si fanno avanti anche i banchieri, i manager, gli amministratori, i revisori, gli avvocati. Tutta gente che per anni e anni ha fatto affari con la Superparmalat, la multinazionale con il turbo, vanto e orgoglio del made in Italy.

Prendiamo le banche: nomi altisonanti della finanza anglosassone come Morgan Stanley, Citigroup, Bank of America. Tanzi bussava e loro aprivano la porta. Serve un prestito? Volete piazzare obbligazioni per centinaia di milioni di euro sui mercati internazionali? Cercate una sponda per montare un’operazione in strumenti derivati? «Niente paura, siamo qui per questo», rispondevano i banchieri. Sempre così, fin dalla metà degli anni Novanta. E nessuno ha mai capito nulla. Vien da dire che si fidavano sulla parola, che compravano a scatola chiusa. Eppure, ogni azienda che chiede un fido di solito viene passata al setaccio. Conti, contratti, bilanci: per la Parmalat sempre tutto in regola. Anzi, meglio, il latte grondava profitti.

TONNA IL DURO.
A trattare con le banche andava raramente il cavalier Calisto in persona. Tutti i poteri, in questo campo, erano nelle mani di Fausto Tonna, un ragioniere entrato in azienda 30 anni fa, poco più che ventenne. «Vietato l’ingresso agli ambulanti e ai rompicoglioni», recitava una targa sulla porta del suo ufficio. Tipo tosto, il Tonna. Lui, i banchieri, li prendeva letteralmente a pesci in faccia. «L’operazione è questa, prendere o lasciare. Se rinunciate vi sostituisco in cinque minuti». Era questo il copione classico messo in scena dal cassiere capo della Parmalat. E i manager degli istituti di credito, pur di non perdere le ricchissime commissioni legate a un prestito obbligazionario, abbassavano il capo. Affare fatto. Così, con la fattiva collaborazione della banche, Tanzi, Tonna e compagni hanno potuto letteralmente invadere il mercato con i bond targati Parmalat. In totale 7 miliardi di euro, che fanno quasi 14 miliardi di vecchie lire. Li hanno comprati tutti. I fondi d’investimento e le compagnie d’assicurazione, i grandi speculatori internazionali e le vecchine della porta accanto. Con l’unica, sostanziale differenza, che i professionisti della Borsa, fiutata la truffa, hanno mollato la presa con settimane, a volte mesi d’anticipo. Il parco buoi, invece, cioè i comuni risparmiatori, sono rimasti con il cerino in mano e le obbligazioni in portafoglio a veder crollare il castello di carte messo in piedi dal cavalier Calisto.

D’altronde, come non fidarsi. I bilanci del colosso di Parma avevano il marchio doc. Amministratori, collegio sindacale e revisori garantivano: tutto a posto. Eppure, a ben guardare, quei conti forse meritavano un po’ più di attenzione. La società aveva le casse piene di liquidità, eppure continuava a indebitarsi. Fatte le debite proporzioni è come se il signor Rossi, con un conto in banca da 500 mila euro, progettasse di comprarsi una casa che ne costa 200 mila. Elementare Watson: il signor Rossi pagherà in contanti. E invece no: il signor Rossi chiede un mutuo di 200 mila euro e tiene i suoi soldi in banca dove gli rendono poco o niente. Per anni la Parmalat si è comportata esattamente così. Spendeva, faceva debiti e teneva le casse gonfie di denaro contante. Qualche banchiere, ogni tanto, si faceva coraggio e chiedeva rispettosamente spiegazioni a Tonna. Il quale, a muso duro, rispondeva: «Sono fatti nostri». Discorso chiuso. È capitato anche che gli analisti finanziari, nel corso delle periodiche presentazioni pubbliche della società, abbiano fatto notare che i conti non erano proprio il massimo della trasparenza, che forse era opportuno fornire maggiori informazioni agli investitori. Risposta di Tonna: «I bilanci sono in regola». Come no? Tre giorni prima di Natale, interrogato per 12 ore filate dai magistrati di Milano, l’ex potente, l’ex arrogante, l’ex Io-so-tutto Tonna ha anche spiegato come facevano a far quadrare i conti. Semplice, semplicissimo: si inventavano le poste attive. Nel senso che fabbricavano titoli ed estratti conto. Anche con lo scanner. Roba che neanche i pataccari dei bassifondi napoletani.

Logico allora che la Sec, l’ente di controllo sulla Borsa americana, abbia definito il crac Parmalat «una delle frodi più sfacciate della storia della finanza». Sfacciata? Può darsi. I revisori di bilancio, però, contabili occhiuti che non perdono occasione per rivendicare la loro professionalità, per anni e anni non hanno mai mancato di dare luce verde a questi conti taroccati. Caso lampante di negligenza, o c’è dell’altro? Dalle indagini della magistratura è emerso un sospetto ancora più grave. I manager della Grant Thornton, la società di revisione che esaminava quasi la metà del gruppo Parmalat, non solo avrebbero chiuso tutti e due gli occhi di fronte alle irregolarità di bilancio, ma avrebbero anche fornito una sorta di consulenza sul modo di aggiustare meglio i conti. Insomma, le guardie che danno una mano ai ladri. Questa, almeno, è la versione dei fatti fornita ai magistrati da alcuni dei collaboratori di Tonna. Nessuno sospettava, nessuno domandava, nessuno controllava. Adesso il fidato cassiere di Tanzi è finito in carcere, insieme al suo principale e ad altri tre contabili dell’azienda. Con lui anche due revisori della Grant Thronton.

1989, IL PRIMO CRAC. 2001, LA CESSIONE BUFFA.
Fine ingloriosa di quella che sembrava un success story, per dirla all’inglese, con pochi precedenti nell’industria agroalimentare. Un campanello d’allarme, per la verità, era già suonato una quindicina d’anni fa. A forza di crescere il cavalier Calisto aveva perso il conto dei debiti, che stavano per portarlo dritto dritto al fallimento. Per di più, lui che si intendeva solo di latte, aveva avuto la bella pensata di mettersi a produrre anche le merendine, i biscotti, i succhi di frutta, i sughi. Risultato: un mare di perdite. Senza contare che per compiacere il suo sponsor politico Ciriaco de Mita si era avventurato anche nel settore televisivo, creando Odeon tv, con una qualche ambizione di fare concorrenza alla Fininvest di Berlusconi. Progetti folli, che finirono per mettere in pericolo la sopravvivenza del gruppo.

Niente paura. In soccorso di Tanzi si attivò la finanza cattolica. Dapprima scese in campo Giuseppe Gennari, un uomo d’affari del tipo mordi e fuggi, svelto e abile in Borsa. Fu varata una complicata operazione che doveva portare all’alleanza tra la Finanziaria Centro-Nord di Gennari con la Parmalat. Tutto bene, ma ancora non bastava. Serviva molto più denaro. Un aumento di capitale da 600 miliardi di lire. Fu allora che scese in campo Gianmario Roveraro, patron della banca d’affari Akros, un finanziere bianco latte che non ha mai fatto mistero del suo impegno nell’Opus Dei. Roveraro nel 1990 pilotò la quotazione in Borsa della Parmalat, che coincise con l’uscita di scena di Gennari. Nel frattempo le banche avevano aperto il portafoglio. Tanzi, che rischiava il fallimento, fu salvato da un prestito pronta cassa di 120 miliardi di lire. E a gestire l’operazione fu il Monte dei Paschi di Siena, gigante del credito allora guidato dal democristiano Carlo Zini.

Fu così che, dimenticati gli affanni e i debiti, il cavalier Calisto riuscì a ripartire alla grande. Anno dopo anno, acquisizione dopo acquisizione, la Parmalat si è trasformata da media azienda agroalimentare in un colosso internazionale. Era sbarcata in Sudamerica. In Brasile e Venezuela i marchi del cavalier Calisto sono conosciutissimi. Poi negli Stati Uniti, in Canada, in Messico. Nell’emisfero opposto il gruppo emiliano aveva piantato le insegne in Sudafrica e in Australia. In Italia Tanzi era diventato così forte da sfiorare il predominio assoluto di mercato. Tanto che l’Antitrust era intervenuta per imporgli la vendita di alcuni marchi. Anche qui non tutto è filato liscio. Per comprare le aziende cedute su ordine dell’Antitrust sono spuntati degli investitori americani. Un paio di loro con nomi molto italiani: Anthony Buffa, Lou Caiola e, infine, Steven White. Dal 2001 fino a pochi mesi fa questi tre signori si sono passati il testimone, subentrando l’uno all’altro nel controllo di marchi molto conosciuti come Giglio, Matese, Sole, Carnini. Peccato che nessuno di loro avesse una esperienza consolidata nel settore lattiero caseario. Erano dei semplici investitori finanziari, peraltro del tutto sconosciuti anche negli Stati Uniti. Logico allora che adesso ci sia chi sospetta che Buffa e compagni siano dei semplici prestanome del signor Calisto, che proprio non voleva saperne di staccare il piede dall’acceleratore.

Una corsa a perdifiato, la sua. Nel 1990 Parmalat fatturava 569 milioni di euro. Cinque anni dopo era arrivata a 2,2 miliardi. Nel 2000 l’azienda di Parma celebrava trionfalmente quota 7 miliardi di euro, per la precisione 7,3. Ancora l’anno scorso, nonostante le difficoltà dovute alla crisi del mercato sudamericano, il giro d’affari si è attestato a quota 7,5 miliardi di euro. Bravi, bravissimi. Peccato che buona parte delle società comprate in giro per il mondo perdesse soldi a rotta di collo. E per tappare i buchi Tonna faceva ricorso alla finanza creativa. Cioè alla sistematica falsificazione dei bilanci. Ogni anno, all’assemblea dei soci, si stappava champagne per festeggiare i nuovi importanti traguardi raggiunti. I revisori approvavano. I giornali applaudivano. E Tanzi festeggiava. Fino alle ultime, concitate puntate: la vicenda dello strano fondo Epicurum, la comparsa del misterioso finanziere Luigi Antonio Manieri che per salvare il gruppo promette miliardi forse inesistenti, la fuga di Tanzi a Fatima e in altri più terrestri paradisi, infine il crollo e la cella.

LA SQUADRA.
Al fianco di Tanzi, schierato compatto, c’era il resto del consiglio di amministrazione. Una truppa assai composita. C’era la famiglia: il figlio Stefano, il fratello Giovanni, la nipote Paola Visconti. I manager della finanza: oltre a Tonna, anche Alberto Ferraris e Luciano Del Soldato. L’ex mago del marketing Domenico Barili, sconfitto proprio da Tonna in un’aspra lotta di potere interna al gruppo. E fin qui erano tutti uomini legati a doppio filo al grande capo. Difficile aspettarsi da loro controlli incisivi. In quel consiglio, però, c’erano anche personalità estranee alla gestione operativa dell’azienda. Almeno sulla carta. Per esempio Paolo Sciumé, uno dei più conosciuti avvocati d’affari milanesi, cattolico tutto d’un pezzo, proprio come Tanzi. Una poltrona era andata anche a Luciano Silingardi, commercialista, banchiere, presidente della Fondazione Cassa di Parma, un professionista che frequentava il signor Calisto almeno da una quarantina d’anni. Si erano conosciuti sui banchi del liceo. Poi mister Parmalat era diventato cliente dell’amico commercialista, che nel suo studio curava contabilità e fisco delle finanziarie di Tanzi e famiglia. Pochi giorni prima che scoppiasse lo scandalo, quando già i venti di bufera soffiavano forti, Silingardi ha abbandonato la barca: dimissioni irrevocabili. Adesso insieme a tutti gli altri amministratori, anche il potente banchiere di Parma dovrà rispondere di fronte ai magistrati di tanti anni di mancati controlli.

E allora, a questo punto, è importante sapere che lo stesso Silingardi è legato a filo doppio anche all’uomo che quelle indagini è chiamato a dirigerle: il procuratore capo di Parma, Giovanni Panebianco. È una brutta storia di raccomandazioni e di favori. Di un imprenditore amico del magistrato che ottiene dalla Cassa di Parma guidata da Silingardi fidi per miliardi di lire senza fornire garanzie. «Sono fatti estranei alla vicenda Parmalat», ha chiuso il discorso il procuratore. Difficile dire, però, che le sue parole abbiano riportato la serenità negli ambienti giudiziari.

Del resto anche a Roma stanno facendo del loro meglio per inquinare un clima già pieno di veleni. Al ministro dell’Economia Giulio Tremonti non deve essere sembrato vero di poter cavalcare anche lo scandalo Parmalat nella sua crociata contro il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Non è solo una questione personale, anche se i due personaggi si detestano cordialmente. In ballo ci sono gli assetti di potere nella finanza e nell’economia italiana. Il centrodestra, Forza Italia e Lega in testa, mal sopporta le Authority indipendenti. E allora, dagli a Fazio, con il solito contorno di fughe di notizie sui giornali. In sostanza, secondo Tremonti, Bankitalia è colpevole di omessa vigilanza sul gruppo di Tanzi.

LA POLITICA E GLI (OMESSI) CONTROLLI.
Poco importa che la competenza su bilanci e atti societari delle società quotate in Borsa è attribuita dalla legge alla Consob, che si è mossa soltanto a partire dalla scorsa estate. E ancora alla commissione presieduta da Lamberto Cardia (e fino alla primavera scorsa da Luigi Spaventa) spetterebbe il controllo sulle attività di revisione. È vero, il campanello d’allarme per Fazio sarebbe dovuto suonare per l’enorme quantità di bond collocati dalla multinazionale di Parma. Ma quelle obbligazioni, si difendono alla Banca d’Italia, erano formalmente emesse da finanziarie di Parmalat costituite all’estero e inoltre erano riservate agli investitori istituzionali. Toccava alla Consob, ancora una volta, controllare che non venisse svolta un’attività di collocamento pubblico espressamente vietata per quel tipo di bond.
Tremonti però non ci sente. «Noi avevamo avvisato per tempo la Banca d’Italia delle difficoltà di Parmalat», non si stancano di ripetere i solerti portavoce del ministero dell’Economia. Di questo passo, tra accuse, sospetti e veleni vari, ci resta una sola certezza: serve una riforma urgente del sistema dei controlli sulle società. Il caso Cirio e, adesso, il colossale crac della Parmalat hanno dimostrato che gli sceriffi dei mercati finanziari, in primo luogo la Consob, vanno dotati di armi molto più efficienti. E soprattutto vanno incrementate le pene, anche pecuniarie, per chi non rispetta le regole. Gli amministratori della banca Bipop, al centro tra il 2001 e il 2002 di un caso eclatante di cattiva gestione, hanno subito un’ammenda, su proposta di Banca d’Italia, pari a 20 mila euro. Ridicola.

Negli Stati Uniti, dopo il dissesto Enron, è stata varata in gran fretta una nuova legge che punisce in modo severissimo gli amministratori infedeli, i manager truffatori, i revisori complici. In Italia invece l’unica riforma recente di una qualche importanza in campo societario ha di fatto depenalizzato il falso in bilancio, accorciando i termini di prescrizione e privando i pubblici ministeri di importanti mezzi d’indagine come le intercettazioni telefoniche. E chi ha varato questo lungimirante provvedimento legislativo? Il governo di centrodestra, quello di Berlusconi (a cui serviva per azzerare i suoi processi) e di Tremonti, lo stesso ministro che adesso si straccia le vesti invocando maggiori controlli.

Diario, 9 gennaio 2004




Il Lattaio, il Giudice e il Mammasantissima


PARMA/1. Gennaio 2004.
Il triangolo di potere nella cittý della Parmalat. Il banchiere Luciano Silingardi, il procuratore Giovanni Panebianco, l'imprenditore Antonino Rizzone

di Gianni Barbacetto



«Chiamare dottor Tanzi oggi alle ore 15». È un appunto manoscritto su carta intestata del dottor Giovanni Panebianco, procuratore della Repubblica di Parma. Il capo della procura e il padrone della Parmalat si conoscevano: e come potrebbe essere altrimenti, in una piccola città come Parma? Più strano è il luogo dove quell’appunto è stato trovato: nella cassaforte di un imprenditore di nome Antonino Rizzone. Un imprenditore speciale: amico e socio di mafiosi siciliani. Chissà se qualcuno si ricorderà di quel biglietto, oggi che a Parma è scoppiato il più grande dei suoi scandali, con Calisto Tanzi in galera, la Parmalat in fallimento e anche il procuratore Panebianco sotto inchiesta. Quell’appunto è stato sequestrato dalla polizia a Montecatini Terme, il 9 ottobre 2001, insieme a tanto altro materiale: ritagli del Giornale di Sicilia e del Corriere della sera, documenti della Cassa di risparmio di Parma e Piacenza, carte bollate che attestano prestiti milionari, atti di compravendita immobiliare, planimetrie... E tanti biglietti che riguardano magistrati.

Tra questi, un appunto su cui è scritto: «Panebianco...»; poi un paio di telegrammi inviati da Rizzone a Giuseppe Gennaro, alla procura di Catania; un altro telegramma di congratulazioni inviato il 16 marzo 2001 a Tindari Baglione, della procura di Pistoia; un biglietto di saluto inviato a Rizzone in data 11 agosto 1994 e intestato «Proc. generale della Repubblica di Messina»; un biglietto con scritto a mano «Dr. Gambino Proc. Rep. Patti, Messina»; un telegramma inviato da Rizzone al giudice Carlo Bellito, della Corte d’appello di Messina; copia della domanda di trasferimento da Nicosia ad altra sede del giudice Massimo Maione; il documento di nomina a magistrato di Cassazione del sostituto procuratore di Parma Francesco Brancaccio, con lettera di trasmissione alla Corte d’appello di Bologna firmata da Panebianco; un foglio con scritto, a mano, «Dr. Mario Persiani, Cassazione Roma»; una lettera del presidente del Tribunale di Parma Lanfranco Mossini. Nella cassaforte dell’imprenditore molto speciale c’erano anche sei fotografie, tra cui quella di Panebianco. C’erano molti biglietti con numeri di telefono, tra cui uno di «Pane».

Uno strano archivio, per un siciliano che ha fatto fortuna a Montecatini. Ma chi è davvero Antonino Rizzone? Non è un imprenditore qualsiasi. Siciliano, nasce nel 1939 a Nicosia, in provincia di Enna. Nei primi anni Settanta a Nicosia gestisce una bottega di alimentari, poi tenta di impiantare un bar. Ma nel 1975 cambia vita: si trasferisce dalla Sicilia a Montecatini Terme e diventa rapidamente un imprenditore di successo. Soldi non ne ha (è figlio d’agricoltori e a Nicosia non aveva trovato neppure i capitali per pagare la ristutturazione del bar), grandi studi non ne ha fatti (ha solo la licenza elementare), eppure deve avere delle doti nascoste, perché appena arivato in Toscana compra un alberghetto dal nome che gli ricorda casa («Pensione Trinacria») e avvia una folgorante carriera. Comincia a comprare, insieme ad alcuni soci, immobili commerciali e terreni. Certo, i suoi soci hanno nomi che per chi conosce le cose siciliane vogliono dire Cosa nostra: Paolo Francesco Alamia, Rocco Remo Morgana, i fratelli Berna Nasca...

Il gruppo di spezza negli anni Novanta: per disaccordi sugli affari, ma anche per l’uscita di scena di Morgana, arrestato per traffico di droga. Eppure l’ascesa di Rizzone non s’interrompe, anzi: si lega al gruppo Giambra, altra combriccola di personaggi in odore di mafia, definita in un’aula di giustizia «associazione per delinquere» specializzata in bancarotte e truffe alle banche. Il metodo del gruppo è collaudato: fabbrica falsi documenti a proposito di inesistenti progetti d’espansione immobiliari, li avvalora con ottime sponsorizzazioni da parte di persone importanti dentro e fuori le banche e infine li presenta alla Cassa di risparmio di Parma e Piacenza, che scuce un mucchio di soldi. La «persona importante» che sponsorizza Rizzone è davvero molto in vista: è Giovanni Panebianco, nato a Catania nel 1932, procuratore della Repubblica prima a Nicosia, poi a Massa, infine a Parma. Panebianco è ben inserito nella buona società parmense. Conosce tutta la gente che conta. Ma è soprattutto buon amico del commercialista di Tanzi, Luciano Silingardi, in quegli anni presidente della Cassa di risparmio di Parma e Piacenza. È una raccomandazione del magistrato a convincere il banchiere, in mancanza di altre garanzie, a concedere fidi miliardari all’amico Rizzone.

L ’AMICO DEGLI AMICI DI COSA NOSTRA.
A metà degli anni Novanta, Rizzone è proprietario, nella sola Montecatini, della Pensione Trinacria, dell’Hotel Florio, di un paio d’appartamenti, di un negozio di calzature, di una discoteca. È gestore dell’Albergo Londra. E in precedenza era stato titolare della Pensione Savoia, dell’Albergo Touring, nonché nientemeno che dell’Amaro Montecatini... I carabinieri di Pistoia, Montecatini, Pisa e Mistretta, però, non sono affatto convinti delle sue capacità imprenditoriali e lo segnalano come persona «legata a cosche mafiose» e «vicina ai corleonesi»: proprio per le sue amicizie e alleanze d’affari con Alamia, che fu uomo di Vito Ciancimino, con Antonino Berna Nasca, più volte implicato in indagini di mafia, con Rocco Morgana, pluripregiudicato siciliano, con Sebastiano Augello, appartenente alla cosca catanese di Nitto Santapaola.

Non basta. Dopo le stragi di mafia del 1993, gli affari dei siciliani in Toscana sono passati al setaccio dalla Direzione investigativa antimafia di Firenze che indaga sull’attentato di via dei Georgofili. Ebbene, Rizzone è uno dei personaggi che sono messi sotto controllo. Con esiti non entusiasmanti per il suo buon nome: «È organico ai corleonesi», scrive in una relazione il commissariato di polizia di Montecatini. E per i corleonesi ha svolto funzioni d’ambasciatore, avviando rapporti con il clan camorristico dei Galasso, con i quali ha messo a punto la compravendita del Kursaal di Montecatini. Ma Rizzone ha ottimi contatti con alcuni magistrati e vanta buoni rapporti anche con la politica.

La Direzione investigativa antimafia, comunque, nelle sue indagini per strage di Firenze redige una scheda relativa a Rizzone e non può fare a meno di rilevare «la frequentazione tra questi e il dottor Giovanni Panebianco, procuratore della Repubblica di Parma e in procuratore presso la procura di Massa». Parma e Massa: proprio le zone in cui «Rizzone ha effettuato investimenti immobiliari, con società a lui riferibili, che avevano attirato, per modalità d’acquisizione o per cointeresse con personaggi legati alla criminalità organizzata, l’attenzione investigativa di più forze di polizia».

«I rapporti tra Rizzone Antonino e il dottor Panebianco», scrive la polizia in un rapporto, «sono senz’altro di stretta amicizia personale». Dunque, l’ineffabile dottor Panebianco è amico di un uomo che appartiene a quell’ambiente che tra il 1992 e il 1993 ha realizzato le stragi in cui sono morti, tra gli altri, due suoi colleghi magistrati di nome Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Panebianco è amico, sponsor, presentatore e sostenitore di Antonino Rizzone, di cui «evidenzia la buone qualità» di fronte ad amici potenti. Come Luciano Silingardi, appunto, il commercialista di Tanzi, per tanti anni grande manovratore della Cassa di risparmio di Parma e Piacenza.

IL TRIANGOLO DEI POTERI. È un vero triangolo degli affari quello tra il Banchiere, il Magistrato e l’Imprenditore. Panebianco raccomanda caldamente Rizzone presso Silingardi, Silingardi finanzia generosamente Rizzone. Le sue società (la Top, la Albatros, l’Immobiliare Colombo) ricevono dalla Cariparma un fiume di miliardi. Per operazioni inesistenti, o fallimentari. E Panebianco, che cosa riceve da Rizzone, in cambio delle sue preziosissime «raccomandazioni»?

Sono stati individuati soldi che girano tra il procuratore e l’imprenditore. E complicati affari immobiliari in Sicilia, storie di terreni, di agrumeti. I giudici di Firenze hanno trovato almeno una traccia visibile: 80 milioni di lire che passano da Rizzone a Panebianco. E vorrebbero capire perché: il sostituto procuratore fiorentino Pietro Suchan è convinto che si tratti del prezzo di una corruzione in atti giudiziari (come quella, tanto per intenderci, che è costata al giudice di Roma Renato Squillante una doppia condanna in primo grado). Per il resto, gran parte dei comportamenti del procuratore Panebianco, del bamchiere Silingardi, dell’imprenditore Rizzone, benché moralmente censurabili e inammissibili (soprattutto per un alto magistrato), sfuggiranno alla giustizia: è passato troppo tempo dai fatti e la prescrizione azzererà tutto (a meno che il giudice delle indagini preliminari non aggravi le contestazioni).

A leggere le spiegazioni di Panebianco, interrogato da Suchan, vengono i brividi. Ma sì, ammette l’ineffabile procuratore, conoscevo Rizzone. Visite, incontri, perfino un capodanno insieme, a Montecatini: «Mi ha invitato a fare il capodanno là, che lui organizzava, e io sono andato con la famiglia». Ma Rizzone è un amico, una persona per bene, un galantuomo. Ha fatto i soldi grazie a un’eredità ricevuta da una coppia di coniugi, due nobili palermitani senza figli che gli volevano bene. Una persona così a modo che sono in rapporti con lui – e qui partono i primi siluri – anche magistrati di rilievo: come Giuseppe Gennaro, sostituto procuratore a Catania ed ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati; come Giovanni Tinebra, ex procuratore di Caltanissetta e oggi direttore delle carceri italiane, essendo al vertice del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria. «Premetto: il Rizzone è molto amico del dottor Tinebra... In un’altra occasione è venuto Tinebra, quand’era procuratore di Caltanissetta, con la scorta... E alloggiava da lui... S’incontrano periodicamente, s’incontrano spesso a Roma, almeno a detta del Rizzone. Poi una volta è venuto nell’albergo di Montecatini e io sono stato là per incontrarlo». Anzi: è proprio Tinebra a presentare Rizzone a Panebianco: «Il dottor Tinebra, che era mio unico sostituto a Nicosia, con cui ancora intrattengo rapporti di amicizia... mi presentò casualmente questo Rizzone Antonino». Erano i primi anni Ottanta, Panebianco era procuratore di Nicosia, Tinebra il suo giovane sostituto.

Poi, altri siluri. Panebianco, durante il suo interrogatorio, si rivolge direttamente a Suchan: «Mi scusi, mi aiuti lei... che questo Rizzone è amico di tanti magistrati di Firenze, lo sa lei?». Poi fa un piccolo elenco di giudici: Carlo Bellitto, Tindari Baglione, Massimo Maione. E Mario Persiano, della Cassazione... Per il resto, Panebianco dimostra di non avere neppure l’idea di come si dovrebbe comportare un magistrato. Falcone non frequentava i salotti palermitani per non trovarsi in cattiva compagnia, Panebianco incontra tranquillamente la buona società parmense. Con il costruttore Paolo Pizzarotti, già imputato di Mani pulite, ha avuto complicati rapporti economici che gli sono costati un’inchiesta, poi finita con un’archiviazione. Ai vertici della Parmalat telefonava per ottenere qualche piccolo favore: «Pietro Tanzi, il cugino di Calisto... Sì, lo conosco, mi rivolgo spesso a lui per avere qualche biglietto dello stadio, quando c’è la partita... Ricorro sempre a lui per avere i biglietti allo stadio quando ci sono amici...». Ecco dunque spiegato il biglietto trovato nella cassaforte di Rizzone: il Tanzi citato è Pietro, non Calisto, giura Panebianco. È ora chiaro come la procura di Parma vegliasse sulla correttezza della Parmalat e con quali credenziali morali oggi la indaghi.

Ma che ci faceva il biglietto di Panebianco nella cassaforte di Rizzone? Mistero. E perché il procuratore doveva telefonare a Tanzi? Lo spiega Rizzone: «Io Calisto Tanzi l’ho conosciuto indipendentemente dall’intervento del dottor Panebianco... Panebianco intendeva farmi conoscere il cugino di Tanzi, Pietro Tanzi, in relazione all’intermediazione per la compravendita di un castello vicino a Parma». Su questo punto Panebianco, nel suo interrogatorio, balbetta: i panni del mediatore d’affari per l’acquisto di castelli padani sembrano troppo stretti perfino a lui.

Forse Rizzone in quella cassaforte aveva la sua assicurazione per la vita: difendetemi, voi toghe, altrimenti vi trascino tutti con me. Nella stessa busta dell’appunto su Tanzi, i poliziotti trovano un biglietto da visita: di Francesco Giuffredi, della Parmalat. «Non lo conosco», giura Panebianco. In un’altra busta trovano la raccomandazione di Panebianco per il suo sostituto, l’uomo forte della procura di Parma, Franco Brancaccio, per altre vicende sotto inchiesta ad Ancona. E qui la spiegazione del procuratore ha dell’incredibile: «Il dottor Brancaccio mi aveva espresso il desiderio... no, l’intenzione, di trasferirsi a Roma, in un incarico speciale: forse una commissione antimafia, una commissione parlamentare... E allora io parlai al telefono con Gianni Tinebra». Chissà perché a Tinebra: che potere ha di influire sulle carriere dei colleghi? Comunque sia, Panebianco decide di fare una copia «del rapporto per illustrare la figura del Brancaccio» per mandarla a Tinebra. Ma invece di spedirgliela per posta, o via fax, la consegna a Rizzone. Dice a Brancaccio: «Sai, Franco, la possiamo dare a Rizzone che s’incontra periodicamente con Tinebra...». Rizzone, interrogato separatamente, canta un’altra canzone: «Dovevamo andare insieme a Roma, poi Panebianco se l’è dimenticata da me...». Suchan insiste con Rizzone: «Ma poteva lei caldeggiare questa nomina? Conosce qualcuno al Consiglio superiore della magistratura?». Rizzone minimizza: «No, a questi livelli non ci sono...».

ZANICHELLI AVEVA RAGIONE.
E la lettera del presidente del tribunale di Parma, Lanfranco Mossini, che cosa ci faceva nella cassaforte di Rizzone? «Non so spiegare come mai si trovasse a casa mia», risponde sobriamente l’imprenditore. Ma poi c’è Silingardi, il Gran Banchiere: «Lui è molto... devoto, diciamo devoto alla magistratura», dichiara Panebianco nel suo interrogatorio a Suchan. Perché «vittima» di un pugno di persone (Gian Luca Zanichelli, Luigi Derlindati, Luigi Grossi) che in assoluta solitudine, per anni, hanno denunciato le ingiustizie che ritenevano di aver subito dal Gran Banchiere. Denuncie naturalmente sempre prontamente respinte dalla magistratura parmense. Ricambiata dalla «devozione» di Silingardi.

Quanto ai rapporti con l’Imprenditore, il Magistrato taglia corto: «Io ho solo garantito che il Rizzone Antonino è persona onesta, è solvibile, solvibile, corretta eccetera...» (Panebianco meriterebbe una candidatura alla Consob, o all’Antimafia, chissà). Poi, un altro siluro: «Ma guardi, non so se sono stato io a presentare Rizzone a Silingardi o Rizzone a presentare Silingardi a me... tanta era la cordialità dei rapporti tra il Rizzone e Silingardi». Collusione ambientale: era davvero irresistibile, a Parma. Tanto che un dipendente della Cariparma, tal Dalla Valle, per fare carriera si rivolge al procuratore, che conferma: «Sì, mi chiese di intercedere con il presidente Silingardi per una promozione a funzionario». Normale.
Questa è Parma, la sua classe dirigente, il suo clima. Questa è la procura che indaga sul crac più grave della sua storia.

Diario, 9 gennaio 2004



Toghe sporche alla parmigiana
PARMA/2. Novembre 2003.
Chiesto il rinvio a giudizio per il procuratore e per il suo amico banchiere



Parma, come una imperturbabile Twin Peaks, continua la sua vita. Del comitato d’affari che la occupa, e delle sue toghe sporche, non sa nulla, o forse non vuol sapere. Diario ne ha scritto sul numero del 10 maggio 2002 (e quell’inchiesta è ancora disponibile sul suo sito www.diario.it). Ha raccontato di intrighi e gruppi di potere, scandali sotterranei e giochi finanziari pericolosi, maldicenze e ricatti incrociati. Il tutto, tra sotterranee solidarietà massoniche e nel silenzio di un’informazione narcotizzata. Ora stanno arrivando al traguardo due indagini svolte altrove, a Firenze, ad Ancona. E un magistrato ha chiesto il rinvio a giudizio di un intoccabile, il procuratore della Repubblica di Parma Giovanni Panebianco.

È accusato di una lunga serie di comportamenti inaccettabili per un magistrato. Aveva convinto un altro intoccabile della città, il banchiere Luciano Silingardi – ieri presidente della Cariparma e oggi presidente della Fondazione Cariparma – a concedere fidi miliardari ad aziende controllate da Antonino Rizzone, un imprenditore siciliano amico e conterraneo del procuratore.

Oggi quelle aziende beneficate dal tocco magico del procuratore sono state acquisite (almeno apparentemente) dal gruppo Giambra, definito in un’aula di giustizia "associazione per delinquere" specializzata in bancarotte e truffe alle banche. Sono anche stati individuati soldi che girano tra il procuratore e l’imprenditore. E complicati affari immobiliari in Sicilia.

Non solo: durante le indagini svolte dalla sezione criminalità organizzata della polizia di Firenze, sono emerse "molteplici notizie sulle frequentazioni in Toscana di personaggi siciliani tra i quali spicca tale Berna Nasca Antonino". Lo sfondo è cupo.
Il Triangolo (il Procuratore, il Banchiere, l’Imprenditore) ha messo a segno, secondo l’accusa, innoque "raccomandazioni" ma anche qualche più sostanziosa "appropriazione indebita di fondi bancari". E nel 1998 da questo gioco pericoloso è spuntata una coppia di spioni che, su mandato di Silingardi, ha cominciato a pedinare, intercettare, fotografare mezza Parma, ex dipendenti della banca, clienti, politici, imprenditori, giornalisti (tra questi, l’allora inviato del Corriere della sera Maurizio Chierici, oggi commentatore dell’Unità). Ad Ancona, per altri fatti, è indagato anche il sostituto procuratore di Parma Francesco Brancaccio.

Sembrava una storia di provincia, nella Parma abituata a scandali grassi, con protagoniste donne coma Tamara Baroni o Katarina Miroslava. O a Dinasty all’italiana, come la storia dell’eredità di Pietro Barilla. Oppure a gialli misteriosi, come la scomparsa nel nulla della famiglia Carretta. Oggi, mentre i poteri locali (i Tanzi della Parmalat, i Barilla, i Pizzarotti, i Bormioli) lottano contro la decadenza, un giudice di Firenze sarà chiamato a decidere la sorte del Triangolo e dei suoi affari.

Gran parte dei comportamenti del procuratore Panebianco, del bamchiere Silingardi, dell’imprenditore Rizzone, benché censurabili e inammissibili (soprattutto per un alto magistrato), sfuggiranno alla giustizia. Secondo il pubblico ministero di Firenze Pietro Suchan, quei comportamenti, laddove sono reato, sono ormai coperti dalla prescrizione. Resistono all’erosione del tempo (a meno che il giudice delle indagini preliminari non allarghi le contestazioni) soltanto alcuni fatti, il più grave dei quali è il versamento di 80 milioni di lire (almeno) passati da Rizzone all’amico Panebianco, in cambio dei fidi miliardari Cariparma ottenuti grazie alla parolina detta dal procuratore all’orecchio di Silingardi. L’ipotesi di reato più grave è corruzione in atti giudiziari (come quella che a Milano ha fatto condannare il giudice Squillante): toghe sporche alla parmigiana.

Diario, 28 novembre 2003


Grossa grana (padana)
PARMA/3. Maggio 2003
L'inchiesta di Diario su una città ricca che cova grandi scandali


A Parma si può arrivare come si arriva in una cittadina di provincia ricca e tranquilla, dove si vive bene e si mangia meglio. E si può partire con l’impressione di essere stati invece dentro un romanzo di Chandler, o di Ellroy, con intrighi e gruppi di potere a impunità garantita. Scandali sotterranei, giochi finanziari pericolosi, maldicenze, ricatti incrociati. Il tutto, nel silenzio di un’informazione narcotizzata. C’è il Banchiere che apre o chiude a piacere il rubinetto dei soldi. Il Giudice che non vede, non sente, non parla. Lo Spione che mette sotto controllo illegale mezza città. L’Industriale che fa più pubblicità che soldi, e che riceve a casa la visita del Grande Politico. Il Giornalista che non scrive una riga del verminaio che vede muoversi attorno. Insomma, un bel comitato d’affari che domina incontrastato e inossidabile sulla placida cittadina. I giudici di tre o quattro città d’Italia hanno cominciato a mettere il naso nelle intricate vicende parmensi e sono finiti sotto inchiesta perfino due magistrati, il procuratore della Repubblica di Parma Giovanni Panebianco (indagato per corruzione a Firenze) e il sostituto Francesco Brancaccio (indagato ad Ancona). In attesa di un romanziere che sappia raccontare questa nostrana Twin Peaks del potere, ecco alcune storie da Parma, che si avvia pacifica e soddisfatta verso le elezioni amministrative.

IL BANCHIERE E I SUOI NEMICI.
Un tempo, qui, gli scandali erano più grassi. C’era sempre di mezzo una donna, da Tamara Baroni a Katarina Miroslava. C’era aria di Beautiful, come nella storia dell’eredità di Pietro Barilla. C’erano vicende destinate a lasciare aperti dubbi e misteri, come la scomparsa nel nulla della famiglia Carretta. C’erano – e ci sono ancora – tanti soldi, nella cittadina dei Tanzi, dei Barilla, dei Pizzarotti, dei Bormioli e dei mille padroncini. Ma oggi la formula sembra cambiata: meno sesso, più potere.

Luciano Silingardi del potere è la sublimazione, poiché occupa il luogo in cui gli affari diventano denaro e il denaro si trasforma in potere: a lungo presidente della Cassa di risparmio di Parma e Piacenza (Cariparma), oggi presiede la Fondazione Cariparma. Nel suo piccolo, è un precursore: era in una situazione di conflitto d’interessi quando non era ancora di moda. Era infatti il banchiere da cui dipendevano i finanziamenti di Calisto Tanzi (il signor Parmalat), ma contemporaneamente era anche suo consulente e commercialista. Ora Cariparma è stata comprata da Banca Intesa Bci. Ma le storie del passato continuano a disturbare i sonni di Silingardi. La più imbarazzante è quella dei rapporti con Giancarlo Braccini, agli arresti dal marzo 2001, con l’accusa di aver spiato mezza città.

Tutto è cominciato nel 1996, quando un funzionario di Cariparma, Gianluca Zanichelli, responsabile dell’ufficio fidi dell’area emiliana, si insospettisce per i prestiti che la banca aveva generosamente concesso a due società, la Top (amministrata da uno sconosciuto signore di Enna) e la Immobiliare Colombo (garantita da una ottuagenaria signora emiliana). Le due società fanno perdere alla banca alcuni miliardi: «I finanziamenti», racconta Zanichelli, «erano stati concessi su “favorevole riferimento” del procuratore Panebianco». Dopo le prime scoperte a Parma, Zanichelli viene mandato alla sede di Roma di Cariparma. Ma anche nella capitale scopre fidi facili e mutui su case mai costruite. «Qui è un disastro, mandate un’ispezione», comunica alla sede centrale. L’ispezione non arriva e Zanichelli, invece di lavare i panni sporchi in casa, accetta di raccontare tutto quel che ha visto alla polizia di Roma. Intanto è richiamato a Parma dove, dopo qualche tempo, gli assegnano una scrivania vuota e lo pagano per non lavorare.
Silingardi, in verità, la racconta diversamente: «Zanichelli fu emarginato perché concesse fidi per tre miliardi e mezzo a un imprenditore che poi fallì, provocando forti perdite alla banca».

Comunque sia, dopo l’emarginazione Zanichelli inizia una sua personale guerra contro la banca, che va ad aggiungersi a quella di altri parmigiani in lotta contro Silingardi, ciascuno con i suoi personali motivi: l’ex industriale Luigi Derlindati, l’ex cassiere Luigi Grossi, il giornalista Vittorio Martello... Nel 1998, tutti questi e molti altri ancora (tra cui politici come il leghista Pierluigi Petrini e l’ulivista Albino Ganapini, oltre all’inviato del Corriere Maurizio Chierici) si trovano spiati, pedinati, intercettati, fotografati da una coppia di spioni: Saverio Torino e Giancarlo Braccini. Il primo lavora per Cariparma, ufficialmente assoldato per garantire la sicurezza di Silingardi. Il secondo non compare a libro paga, ma è l’uomo forte della coppia: Torino gli gira una bella fetta dei compensi (pagati dalla banca sotto la voce «bonifiche ambientali»); non solo, Silingardi gli fa concedere dalla banca affidamenti per oltre 300 milioni. È un personaggio in città, Braccini: si veste da 007, occhiali scuri, sigaro in bocca, è un informatore della polizia, spregiudicato ma ben introdotto con il questore e il capo della squadra mobile. È un appassionato di misteri: dalla scomparsa dei Caretta al mostro di Loch Ness (dice di possederne una fotografia, che va ad esibire al Maurizio Costanzo Show).

Alla coppia, Silingardi conferisce un mandato preciso nei confronti dei suoi nemici, espresso con una sola parola: «Distruggeteli». Ma dopo aver compiuto tanti «lavori sporchi» ed essere stati scoperti, Braccini e Torino vengono scaricati dalla banca. Chiedono a Silingardi soldi, tanti soldi. Un po’ (un centinaio di milioni) ne ottengono, ma non si accontentano: minacciano, chiedono alcuni miliardi. Silingardi resiste. E Braccini, proprio con lo pseudonimo 007, comincia a firmare una serie di articoli su un improvvisato settimanale, il Giornale di Parma: esagerazioni e bugie mescolate con impronunciabili verità, veleni, messaggi trasversali, ricatti. Contro la banca di Silingardi, accusato di aver gestito il passaggio a Banca Intesa, nel 1998, arricchendo gli «amici» e danneggiando i piccoli azionisti. Ma anche contro la giunta comunale di centrodestra del sindaco Elvio Ubaldi, che non ha assegnato appalti al costruttore Armando Dall’Asta, guarda caso finanziatore del settimanale.

Nel marzo 2001 il gioco si interrompe: Braccini è arrestato, Dall’Asta finisce in manette, il Giornale chiude. Viene messa sotto indagine anche una giornalista di Parma, Rossella Canadé, colpevole di aver raccontato sull’Espresso la storia degli spioni. Ed è indagato anche Zanichelli: per aver passato a Braccini documenti della banca (tra questi, gli estratti conto dei magistrati Panebianco e Brancaccio e quelli dell’allora prefetto di Parma, Giuseppe Mazzitello). Zanichelli glieli aveva forniti credendo di ricevere aiuto per incastrare i vertici di Cariparma, che continua a ritenere scorretti. Braccini, maestro del doppio gioco, li utilizzava invece per dimostrare proprio a quei vertici la propria efficienza e la necessità di continuare il suo «lavoro», illegale ma ben pagato. Renzo Cesari, condirettore generale di Cariparma, ammette davanti ai magistrati: Braccini avanzava «singolari pretese», minacciava che la documentazione raccolta avrebbe potuto «prendere strade diverse», la banca temeva che gli estratti conto del prefetto Mazzitello potessero essere utilizzati «in maniera molto sconveniente per la banca».

GIUSTIZIA ALLA PARMIGIANA.
Ora l’attenzione è puntata sugli uomini delle istituzioni. Il procuratore Panebianco ha ricevuto un avviso di garanzia inviato dalla Procura di Firenze e ha avuto addirittura l’abitazione perquisita nella notte. Il sostituto procuratore Brancaccio è invece indagato ad Ancona. Eppure nessuno ha osato scrivere queste notizie, tanto meno la Gazzetta di Parma, il quotidiano dell’Unione industriali che ha il monopolio dell’informazione locale e mai oserebbe pubblicare una sola parola che non sia di lode per i potenti della città, banchieri, giudici e imprenditori. Sotto la lente degli investigatori i rapporti tra i magistrati di Parma e i vertici della banca, gli intrecci tra affari e giustizia. È vero quanto sostiene Zanichelli, e cioè che la banca ha concesso ad aziende fidi (in perdita) su raccomandazione di Panebianco? È vero che Brancaccio ha ottenuto dalla banca uno scoperto di conto corrente di 300 milioni? Difficile distinguere, a Parma, tra veleni, vendette e verità. Sono mille, qui, le storie di soldi e affari e potere. Certo è che la Banca d’Italia, dopo un’ispezione durata otto mesi, a cavallo tra il 1997 e il 1998, ha accertato che Cariparma concedeva fidi facili, «superando i limiti prudenziali» e determinando «diffuse irregolarità». Tra le società citate a questo proposito nella relazione finale di Bankitalia vi sono la Top, l’Immobiliare Colombo, la Parmacotto.

Marco Rosi, il signor Parmacotto, grande investitore in pubblicità sulle reti di Berlusconi, oggi è presidente dell’Unione industriali di Parma. Più del fatturato, fa pesare l’immagine che ha saputo costruire e gli ottimi rapporti che ha stretto (con Marcello Dell’Utri, ex numero uno di Publitalia; con Giancarlo Elia Valori, parmigiano d’adozione; con Silvio Berlusconi, che nel novembre scorso ha ricevuto nella sua casa di Parma). In passato, un professionista di Roma aveva sporto una denuncia alla polizia perché – sosteneva – due funzionari di Cariparma gli avevano chiesto di emettere fatture false nei confronti di società di Parma, tra cui la Parmacotto, per permettere la formazione di fondi neri. Ma la vicenda si è poi chiusa con il pagamento al professionista da parte della banca di una transazione miliardaria.

Sono finiti i tempi in cui la destra, all’opposizione, faceva le pulci ai potenti locali. Ancora nel 1997 Francesco Storace, allora deputato di An, aveva rivolto un’interrogazione parlamentare sui rapporti tra il costruttore Paolo Pizzarotti, indagato per Tangentopoli, e i magistrati di Parma, in cui segnalava «strane frequentazioni di magistrati inquirenti e giudicanti» e sosteneva che «il pubblico ministero dei processi in corso è abituale frequentatore della casa del dottor Pizzarotti». Oggi una cappa di silenzio si è chiusa sul potere di Parma. Restano soltanto i ricatti e i veleni di qualche personaggio spregiudicato e le voci controcorrente di qualche disperato, come l’ex cassiere Luigi Grossi, licenziato dalla banca, che ogni tanto sale sul Duomo di Milano per gridare la sua rabbia contro il comitato d’affari.

Diario, maggio 2003










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