martedì 6 novembre 2012

INCHIESTA STATO-MAFIA


C’era un patto con la mafia
garanti Dell’Utri-Berlusconi”

La strage di via D’Amelio dove morì Borsellino

Palermo, depositato il
“J’accuse” sui 12 indagati:
“Grave cedimento dello Stato”
RICCARDO ARENA
PALERMO
La chiamano «scellerata trattativa», sostengono che è andata avanti dal ’92 al ’94 e che ha visto protagonisti «i massimi esponenti di Cosa Nostra ed alcuni rappresentanti dello Stato», fino alla «definitiva saldatura del nuovo patto di coesistenza Stato-mafia», realizzato grazie alle «garanzie assicurate dal duo Dell’Utri-Berlusconi».  

C’è anche un po’ di storia e di sociologia, nella memoria che ieri i pm di Palermo hanno depositato agli atti del procedimento per la trattativa fra Stato e mafia. Una ricostruzione portata avanti nonostante le «amnesie collettive» che per vent’anni hanno colpito tanti uomini delle Istituzioni. 

Nelle 22 pagine inviate ieri al Gup Piergiorgio Morosini, il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e i suoi sostituti Nino Di Matteo, Lia Sava, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia citano anche (senza nominarlo) il premier Mario Monti, sostenendo che non c’è altra ragion di Stato che quella che punta a scoprire la verità. È anche per questo che esprimono dubbi sull’immagine di Oscar Luigi Scalfaro e di altri personaggi, morti come l’ex presidente della Repubblica: l’ex capo della Polizia, Vincenzo Parisi e soprattutto l’ex vicedirettore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Di Maggio, «legato ai Servizi e al Ros». 

Ingroia, che da oggi sarà in viaggio verso il Guatemala, dove venerdì prenderà servizio nella commissione Onu contro l’impunità per i crimini commessi durante la guerra civile, scrive che l’obiettivo della trattativa era «ambizioso»: «Un nuovo patto di convivenza Stato-mafia, senza il quale Cosa Nostra non avrebbe potuto sopravvivere e traghettare dalla Prima alla Seconda Repubblica. Un patto di convivenza che, da un lato, significava la ricerca di nuovi referenti politici e, dall’altro lato, la garanzia di una duratura tregua armata, dopo il bagno di sangue che in quegli anni aveva investito l’Italia». Referenti che, alla fine, con la minaccia di nuovi attentati (allo stadio Olimpico di Roma) sarebbero stati il centrodestra e Berlusconi. 

Caduto il Muro di Berlino, dicono i pm, si frantumarono i vecchi equilibri politico-mafiosi e venne meno, con la sentenza del maxiprocesso, la garanzia dell’impunità per Cosa nostra. Da lì lo scatenamento dell’attacco allo Stato, con l’omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992), che rappresenta anche l’assalto alla politica collusa. Poi ci sono le stragi di Capaci e via D’Amelio e, l’anno dopo, Roma, Firenze e Milano. In un clima fatto di «tanti, troppi, depistaggi e reticenze, spesso di fonte istituzionale», vengono trascinati davanti al Gup 12 imputati, 5 mafiosi, 5 esponenti delle Istituzioni, Massimo Ciancimino e Marcello Dell’Utri. 

Ciancimino viene ancora indicato come «testimone privilegiato dei fatti, fonte di prova dalla controversa attendibilità intrinseca (visto che in questo processo assume anche la veste di imputato del delitto di calunnia)», ma creduto se riscontrato, anche perché, grazie a lui, diversi «testimoni eccellenti, alti esponenti delle Istituzioni del tempo», hanno ritrovato la memoria, riferendo, «per la prima volta, circostanze che avevano a lungo taciuto». È invece «grave e deprecabile» il «seppur parziale cedimento dello Stato, tanto più perché intervenuto in una fase molto critica per l’ordine pubblico e per la nostra democrazia». 

I pm indicano i ruoli di ciascuno: i mafiosi, come Totò Riina, Leoluca Bagarella, Bernardo Provenzano, Antonino Cinà e il pentito Giovanni Brusca avrebbero ricattato lo Stato, gli «anelli di collegamento» sarebbero stati l’ex colonnello Giuseppe De Donno e i generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, i «politici-cerniera» Calogero Mannino prima e Marcello Dell’Utri dopo. C’è poi Nicola Mancino, che risponde di falsa testimonianza. Parisi e Di Maggio, «agendo entrambi in stretto rapporto operativo con Scalfaro, contribuirono al deprecabile cedimento sul tema del 41 bis». Fu quello «il momento, in cui irrompe sulla scena una male intesa (e perciò mai dichiarata) ragion di Stato, che fornisce apparente legittimazione alla trattativa e che coinvolge sempre più ampi e superiori livelli istituzionali». 

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