venerdì 9 novembre 2012

STORIE DEGLI ITALIANI NEL DOPO SANDY A NEW YORK


Le storie degli italiani di Sandy:
“Così ripartiamo dopo l’uragano”


«Senza luce né acqua, costretti a trovar rifugio da amici o in hotel»
FRANCESCO SEMPRINI
NEW YORK 
Professori, manager, ricercatori e stilisti. Ecco gli italiani che hanno dovuto fare i conti con Sandy, senza casa, senza luce o senza acqua, costretti a trovar rifugio da amici o negli alberghi, bloccati in una City divisa a metà tra le tenebre di Downtown e le consuete mille luci della parte più alta. Uno spaccato dell’Italia newyorkese ai tempi dell’uragano, racconti di un disagio dalle venature talvolta romantiche, esperienze uniche e drammatiche, per alcuni solo appena concluse. 

IL PROFESSORE 
«Lei pensi: la mia residenza è a Waterside Plaza». Già da queste prime parole, Pierangelo Filigheddu ci fa capire che la sua è una storia già scritta. Il complesso dove abita si trova in una delle «Zone A», quella sull’East Side nel senso più estremo del termine, in sostanza quando si affaccia dalla finestra vede solo l’acqua e, poco oltre, le luci di Brooklyn e Queens. In qualche modo poteva essere lui a dare a Sandy il benvenuto a New York. Proprio per questo il professore, che vive da tre anni nella Grande Mela e insegna alla scuola delle Nazioni Unite, è stato fatto evacuare ancor prima dell’arrivo della tempesta post-tropicale. «Per alcuni giorni prima dell’uragano arrivavano puntualmente messaggi telefonici registrati con i quali ci consigliavano di lasciare il palazzo. - spiega il professore - Poi domenica è giunto l’ordine di evacuazione obbligatorio entro le 19 dello stesso giorno». E così Filigheddu ha dovuto lasciare il suo appartamento al 32 esimo piano, per confluire nel fiume di 1500 condomini costretti ad abbandonare Waterside Plaza. In compagnia del fratello, a New York, bloccato nella City a causa della sospensione dei voli, è dovuto andare in un albergo trasportato su uno degli autobus messi a disposizione dal comune. Nell’hotel sulla Lexington hanno trascorso la notte dell’uragano. «Abbiamo seguito le diverse fasi in tv ma poi è andata via la luce. L’unico pensiero è stato quello di risparmiare le batterie di pc e cellulari perché non sapevamo se il giorno dopo avremmo potuto ricaricarli». Senza corrente e acqua i fratelli Filigheddu decidono di cambiare albergo, questa volta la scelta si rivela fortunata. «Qui abbiamo tutto, ma sono giorni che siamo in villeggiatura forzata, - prosegue - anche la scuola è chiusa e temo che di tornare a casa non se ne parlerà sino alla fine della settimana». Al Waterside Plaza le forniture non sono ancora state perfettamente ripristinate, il professore tuttavia si consola spiegando che la sua abitazione non ha subito danni e dimostra di non aver perso il suo tipico buon umore: «L’anno scorso l’uragano Irene mi è costato 2.500 dollari di albergo, quest’anno ne pagherò di più. Ora capisco perché a queste tempeste mettono nomi di donna».  

IL MANAGER 
«Ho dovuto fare 46 piani a piedi, a scendere per fortuna». Gabriele Ratoni, 39 anni, è amministratore delegato di una grande azienda italiana che opera da tempo sul mercato americano della moda, vive da alcuni anni a New York ed abita al 46 esimo piano del «W» una torre modernissima che domina l’area del World Trade Center. «Domenica è arrivato il consiglio di evacuazione, - racconta - circa la metà dei condomini ha lasciato l’edificio, io, invece, sono rimasto dal momento che non era un ordine obbligatorio, inoltre il mio palazzo non era compreso nelle Zone A». I problemi iniziano il lunedì quando viene chiusa l’acqua calda, tuttavia Ratoni tiene la posizione e non lascia casa. «Hanno consigliato di stare lontano dai vetri perché il rischio era che il vento li rompesse, - spiega il Ceo - In concomitanza dell’arrivo dell’uragano è andata via la luce, ma non è stato quello il problema mi sono arrangiato con le torce che ci avevano dato in caso di emergenza. La sensazione più brutta era però sentire le oscillazioni del palazzo battuto dai venti forti, ecco in quel frangente ho avuto un po’ di timore». La mattina dopo il condominio era completamente al buio, l’acqua corrente non c’era e il generatore di riserva, che era stato predisposto nel seminterrato, non era funzionante per via dell’allagamento. «A questo punto è scattato l’ordine di evacuazione, - racconta - questa volta obbligatorio: ho dovuto fare 46 piani a piedi, per fortuna a scendere». Con gli alberghi già pieni, anche per la concomitante maratona, il manager italiano trova rifugio a casa di un collega, arrangiandosi per alcuni giorni sul divano, sino a quando giovedì non riesce a trovare un posto in albergo. «Devo ammettere che è stato fatto tutto il possibile sia in termini di prevenzione che di risposta all’emergenza, la scelta di non andarmene subito è stata solo mia», ammette Ratoni. Efficace la sua riflessione sulla New York del post uragano, una città senz’anima, o meglio senza luce: «E’ come un computer con l’hardware intatto e il software andato in corto circuito». 

IL RICERCATORE 
«La cosa che più mi ha fatto impressione è aprire la porta di casa ed essere ingoiato dal buio». Enrico Guarnera è un giovane ricercatore di biofisica al dipartimento di Matematica della New York University. Da più di due anni vive in uno dei complessi dove si trovano gli alloggi del campus adiacenti a Washington Square, nel Greenwich Village. «La mia era Zona C, quindi non mi sono preoccupato più di tanto anche perché pensavo che alla fine sarebbe stato un po’ come Irene l’anno scorso», racconta. Per Enrico e i colleghi del campus nessun ordine di evacuazione, solo qualche ovvia precauzione, dell’acqua e qualche candela. «Devo ammettere che a conti fatti l’ho presa un po’ sottogamba, del resto non mi aspettavo quello che poi è accaduto». Nel pomeriggio torna a casa: « Ho provato a fare un giro verso l’Hudson River, ma non era affatto sicuro da quelle parti». Inizia a seguire l’uragano sul Weather Channell, sino al suo arrivo a New York: «Alle 8:27 è andata via luce, ricordo bene l’orario guardavo continuamente l’orologio», poco dopo va via il segnale del cellulare. Non si da per vinto e si aggancia al server dell’università per seguire su Internet la situazione, accanto una candela e un bicchiere di vino. Quando i venti si calmano sente alcuni voci per strada e decide di aprire la porta del suo appartamento: «Era incredibile tutto buio, davanti a me solo tenebre». Il mattino dopo al risveglio si accorge di non avere neanche l’acqua corrente. Il primo pensiero è ricaricare pc e telefono, ed si reca così nell’Istituto dove lavora alimentato da un generatore di emergenza. Poi la ricerca di una sistemazione, da amici, prima nell’Upper East Side, quindi a Brooklyn. E’ convinto che le autorità hanno fatto tutto il possibile nella gestione dell’emergenza e sottolinea il grande impegno della Nyu che i giorni successivi all’uragano distribuiva pasti caldi (anche prelibati) a tutti, studenti e non. Ci confida che nonostante il disagio l’atmosfera surreale del post-Sandy è stata a tratti affascinante, pregna di un solidarismo di altri tempi che forse non ci si aspetta in una metropoli tentacolare e caotica. In ogni caso un’esperienza unica il cui epilogo è stato scritto dopo dioversi giorni in una mail inviata ad amici e parenti: «Torno a casa, mi hanno informato che luce e acqua sono appena tornate».  

LA STILISTA 
«Quando il vento ha spalancato le finestre mi è sembrato di essere in un film dell’orrore». Benedetta Antonelli, originaria di Padova, è approdata a New York nel 2008. Stilista e creatrice di una propria linea di moda di successo, vive come molti colleghi a Soho, con il marito John. La notte dell’uragano a casa loro c’erano anche la sorella di lui, Melissa, e alcuni amici che avevano dovuto lasciare il proprio appartamento a Battery Park, la «Zona A» per antonomasia. «Ci sentivamo al sicuro, abitiamo all’undicesimo piano di un’area considerata piuttosto sicura. - racconta Benedetta - Per esorcizzare la paura abbiamo deciso di cucinare un risotto». Purtroppo il risultato non sarà quello sperato. L’agitazione ha prevalso quando poco prima dell’uragano è andata via la luce mentre i forti venti mettevano alla prova i vetri dei finestroni a giorno: «Le raffiche erano talmente forti che alcune finestre si sono spalancate improvvisamente, sbattevano forte, - racconta - sembrava di essere in un film di paura, nel tentativo di chiuderle si è rotta anche una maniglia, c’è stato un attimo di panico». Subito dopo ad andarsene è stata l’acqua: «Pensavamo durasse una giornata e abbiamo deciso di rimanere usando le poche scorte di acqua che avevamo». In realtà la permanenza accampata si è prolungata per oltre due giorni: «Era troppo, abbiamo dovuto buttare via tutto quello che c’era nel frigorifero, poi abbiamo chiuso tutto e siamo andati a casa di amici ad Uptown, dalle parti di Park Avenue». La latitanza forzata di Benedetta e John è terminata nel fine settimana, quando Soho ha riacceso le luci per la prima volta dopo cinque giorni: «E’ stato bello vedere quanto certe persone ci siano state vicine, è stato ancora più bello vedere la nostra casa nuovamente illuminata. Per sdebitarci li inviteremo a cena, ovviamente per un grande risotto».  

IL REGISTA 
«Siamo stati fortunati a capitare in un albergo a Nolita che aveva un generatore, l’unico nel quartiere: wii-fi e acqua calda non sono mai mancati». Federico Soncini, parmense di origine, vive a Los Angeles dopo alcuni anni trascorsi a New York. Giornalista e regista di documentari e cortometraggi, torna sovente nella Grande Mela per rivedere gli amici di sempre, ma anche per qualche opportunità di lavoro. Era qui il giorno dell’uragano con la fidanzata Alison, stilist di origini texane che ha conosciuto in uno dei suoi viaggi lungo la West Coast. Sarebbe dovuto ripartire il martedì dopo l’uragano, ma l’ira di Sandy e il blocco dei voli lo hanno bloccato a New York. La sua più che una storia di disagio appare un’esperienza inebriante nata per caso: «Il blackout è affascinante, si ritorna all’essenziale. Io e la mia ragazza siamo andati a pranzo da amici a Williamsburg tutti i giorni ma la sera siamo sempre rimasti a Downtown. Molti locali erano aperti, illuminati con le candele, muniti di una cucina a gas offrivano panini, pizza, vino». Non sono pochi quelli che hanno pensato che fosse più interessante rimanere Downtown, sopportando un po’ di scomodità. «La prima sera del blackout abbiamo camminato per l’East villlage. Certo non era sicurissimo, c’era il timore di aggressioni, sciacallaggi, ma la verità è che anche vicino ai “projects” di Alphabet city i ragazzi erano più interessati a fare foto e filmini con i telefonini che a derubare i passanti». Secondo Federico è come se nell’emergenza si fosse sviluppata una cultura del «blackout», basata sul passaparola: l’angolo tra Houston ed Elizabeth dove funziona il gestore telefonico At&t, c’è un ragazzo con il generatore che ti ricaricava gratuitamente le batterie smart phone e tablet. Poco lontano il ristorante indiano che vendeva cibo cucinato a casa, e, poco più in là, il negozio di alimentari illuminato con le luci dell’auto parcheggiata in mezzo alla strada». Un’esperienza quasi mistica per il novello regista che forse nel fugace cuore di tenebra di Downtown ha cercato ispirazione per qualche lavoro. «E’ interessante perché per incontrarsi si ritorna a fare piani come una volta, - spiega - ci si da un appuntamento molte ore prima e non si può cambiare ora e posto all’ultimo secondo». Insomma un’esperienza che andava fatta e che ha rafforzato il legame tra New York e Federico, tanto che la permanenza forzata si è trasformata in volontaria, nonostante le notizie dell’arrivo di un’altra tempesta sui cieli della City: «Si, rimango un’altra settimana, questa volta però sono da amici ad Uptown». 

IL COMMERCIALISTA 
«E’ stata un’opportunità per conoscerci meglio». Gabriele Coen vive a New York da alcuni anni, commercialista di professione lavora in uno studio all’Empire State Building, ma come molti giovani professionisti stranieri abita nel Village, a Bleecker Street precisamente, una delle vie che l’uragano Sandy ha spento per prime. «La nostra palazzina ha dodici appartamenti dove vivono per lo più giovani come me - racconta - Quella sera solo a casa nostra tra amici e parenti del mio coinquilino e miei eravamo sette». Gabriele e gli altri ospiti della casa decidono di vivere l’uragano tutti assieme in una sorta di esorcismo goliardico per vincere le paure instillate da media e metereologi. «In realtà alla luce di quanto accaduto devo ammettere che abbiamo sottovalutato Sandy, non avevamo candele, le scorte di cibo erano assai limitate, e, in generale, non eravamo organizzati per far fronte a un black out del genere». Per la prima giornata i ragazzi si organizzano sul modello di una comune, ognuno fa qualcosa, chi cucina, chi va a caccia di luci di emergenza, chi semplicemente tiene alto l’umore del gruppo. «Devo dire che all’inizio è stato piacevole, è come se avessimo fatto cadere quelle barriere interpersonali dettate dai ritmi frenetici tipici newyorkese - dice Gabriele - Abbiamo avuto modo di conoscerci meglio e di conoscere meglio anche gli altri ragazzi del condominio». Un’esperienza piacevole insomma che ha reso i disagi, almeno all’inizio, poco pesanti: «Eravamo contenti specie per gente come noi un po’ martoriata dalla routine del day-by-day». Per ricaricarsi i ragazzi vanno nella vicina Nyu dove c’erano luce, Internet e pasti caldi gratuiti. Poi però il malessere e le difficoltà iniziano a prevalere: «Noi l’acqua ce l’avevamo, ma quello che ci ha messo in difficoltà era la mancanza di riscaldamento concomitante all’abbassamento delle temperature, in casa si moriva di freddo». E poi i problemi per raggiungere il lavoro: «Non passavano taxi e ogni mattina dovevo camminare quaranta minuti, così come per mandare un sms ai miei la sera dovevo fare 25 isolati al buio e raggiungere il primo punto in cui c’era segnale». Ma nonostante tutto Gabriele e i suo compagni di avventura non lasciano mai la propria «comune» di Bleecker Street resistono sino a quando dopo giorni, come d’incanto «fiat lux». «Se dovesse accadere di nuovo penso proprio che rifarei un’esperienza “comune”, ma questa volte ci si organizzerebbe in maniera perfetta». 

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